CentocinquantaRossetti
Estratto del libro di Emiliano Clementi
Mi chiamo Marco Fubini e avevo appena compiuto quaranta anni quando fui chiamato a fornire la mia consulenza ad un’Azienda di Reggio Calabria. Ero uno di quei quarantenni che tanto affascinano la cinematografia italiana: single, una splendida figlia di quindici anni, una buona carriera professionale in essere. Reggio, per me che venivo da Roma, aveva e ha un suo fascino particolare. Per prima cosa ti colpisce il mare e la vicinanza con l’isola. L’Etna non si vede ma la sua presenza si avverte. Sui balconi di casa spesso si trova la cenere del vulcano e, per uno come me, abituato a vedere i vulcani solo in televisione, tutto ciò dona un tocco di magia in più. Le persone sono cordiali e ospitali, non è difficile stringere nuove amicizie. La sera i reggini si riversano sul Lungomare Falcomatà, caratterizzato da una miriade di locali dove è possibile prendere un aperitivo o ballare. La leggenda narra che un vecchio sindaco della città (evidentemente in aperto conflitto con le regole della matematica) lo abbia definito il chilometro più lungo d’Italia. Mi sono sempre ripromesso di misurarlo e confrontarlo con altri rettilinei della penisola ma, senza paura di smentite, mi sentirei di affermare che un chilometro del Lungomare Falcomatà è lungo quanto un chilometro di un qualsiasi altro Lungomare. Né più né meno. Nella mia nuova esperienza calabra le giornate passano piacevoli, il lavoro procede e, più rapidamente che in altri posti, mi inserisco nel tessuto sociale della città. Sarò pure romano da sette generazioni ma qui mi sento come a casa. Qualche chilometro più a nord di Reggio si trova Chianalea, il più antico borgo di Scilla. In questo meraviglioso angolo di Italia, caratterizzato da case costruite direttamente sugli scogli, viveva Carol con la sua famiglia. Mi viene presentata da amici comuni e, malgrado sia più grande di me, è ancora bella, avvenente e simpatica; mi lascia subito il suo cellulare e, dopo le prime chattate scherzose, ci accorgiamo che, oltre una profonda comunanza ideologica, tante piccole passioni ci legano. Sembrerà superficiale ma quelle “tante” piccole passioni comuni accendono in me la miccia dell’amore. Con lei tutto sembra combaciare alla perfezione e ogni argomento sembra poter essere affrontato con serietà e leggerezza allo stesso tempo. Sono un tipo estremamente rigoroso ma che sa anche diventare, in un attimo, frivolo. Noto con stupore che, con estrema facilità, possiamo affrontare impegnati discorsi teologici e passare, pochi secondi dopo, a ridere su uno scherzo telefonico fatto al malcapitato di turno. E’ dotata di una discreta cultura ma questo non le impedisce di ricercare anche le leggerezze che la vita offre, financo l’effimero. Mi affascina tutto ciò. Malgrado la mia tempera, ho sempre portato con me l’insegnamento tramandatoci dal film Amici miei: la vita non è una condanna ai lavori forzati. Capiamo che fra noi brucia la fiamma della passione e decidiamo di cederle. L’unica cosa che mi chiede è di incontrarci a Roma. Lei è sposata con un uomo di venticinque anni più grande da cui ha due figli, di cui uno adolescente. Chianalea, ma anche Reggio Calabria, sono troppo piccole e rischiose. Per rafforzare la sua richiesta mi parla di suo marito e mi racconta di quanto la vessi, la manipoli, la controlli, addirittura arrivi ad essere violento. Non ho mai capito il perché, ma credo per deriderlo, decide di mostrarmi le sue foto. Vengo colpito non tanto dall’età ma dall’abbondante pancia. Ovviamente capisco e ci diamo l’appuntamento a Roma. In realtà Carol è già al secondo matrimonio, ma questo me lo racconterà solo in seguito. Il giorno del nostro incontro Roma sembra diversa. Il traffico ed il caos, tipici della capitale, miracolosamente svaniscono, la giornata è piacevolmente calda. Viviamo la nostra intimità e ci accorgiamo che anche l’ultimo pezzo del puzzle combacia alla perfezione. Lei è la donna che ho sempre desiderato. Avrei voglia di vivere fin da subito con Carol. Mi tornano alle mente le parole di Billy Crystal che, nella scena finale del film Harry ti presento Sally afferma: quando ti rendi conto che con una persona vuoi passare il resto della tua vita, vorresti che il resto della tua vita iniziasse da subito. Purtroppo è sposata. Malgrado ciò, la sera a cena, in un attimo, mi spiazza. <> Mi dice con tono serio fissandomi negli occhi. Sono tentato di rispondere si, ma la mia parte razionale (e forse anche la paura) mi porta a porre un freno <> affermo alterato. Probabilmente la mia contestazione aveva una sua ragione di essere. Dopo pochissimi giorni mi comunica che ha lasciato l’anziano (e pancione) marito. La sua iniziativa mi convince del valore della donna per cui ho perso la testa. Carol è una di cui ci si può fidare ad occhi chiusi, una che sa prendere le sue decisioni. Non è il noioso stereotipo di donna che, contemporaneamente, si tiene uno scialbo e datato marito, con il portafoglio aperto (da cui poter attingere illimitatamente) e l’amante di turno, utile a riscoprire la propria femminilità. Lei no, lei è una persona onesta, è una che sa fare delle scelte. Non è infrequente che dopo la primissima fase di passione, una coppia, ancora di più se formatasi in età matura, inizi a raccontarsi e a condividere le proprie esperienze pregresse. Anche per noi è stato così. Dopo le prime pagine narrative – in cui Carol si dipingeva come una moglie onesta – cominciarono a calare gli altarini… Un giorno, con un pizzico di orgoglio, si lasciò sfuggire che un ragazzo, di quindici anni più giovane, l’aveva invitata ad un convegno. Più tardi, forse per vantarsi, raccontò che quel ragazzo era stato il suo amante. Mi colpì non tanto e non solo il fatto che lei, donna integerrima e dallo sguardo pulito, avesse tradito il marito, ma che continuasse a sentirsi con il suo giovane amante anche quando aveva iniziato quella che definiva la vera storia della sua vita. Abbozzò una lunga serie di rassicurazioni, a vederle con il senno di poi tutte ampiamente deboli, che furono sufficienti a convincermi. <> Una scusa che aprì in me una paura ancora più grande<>le chiesi in diverse conversazioni. Alla fine arrivai a contarne almeno cinque, quattro uomini e una donna. Nei ventitre anni di vita coniugale aveva tradito il suo secondo marito con cinque persone diverse. Fui preso da uno stato di ansia molto forte. La paura si impadronì di me. Con quale donna mi stavo legando? Una senza scrupoli, capace di uscire un pomeriggio, andare a letto con il proprio amante e poi passare la sera, a parlare del più e del meno con suo marito, come se nulla fosse accaduto. Non riuscivo a concepirlo. Non sono mai stato un bacchettone ma ho sempre ritenuto il tradimento come un’azione vile, una specie di furto. So bene che l’esternazione di questo mio pensiero attirerà su di me le saette di tutto quel mondo progressista e tollerante di cui faccio parte, ma è il mio pensiero, non riesco a sottacerlo. Secondo me una relazione (ancora di più un matrimonio) si basa – salvo patti contrari – sull’unicità della relazione sessuale. Chi dovesse (segretamente) rompere tale vincolo sta rubando, all’altro partner, l’amore e le attenzioni (e/o prestazioni) che da esso scaturiscono. Faccio un esempio: se il marito tradisce la moglie e quest’ultima – ignara – amorevolmente gli prepara la cena o gli stira una camicia, sta subendo una sorta di furto. Il marito fedifrago sta estorcendo – attraverso l’inganno – delle prestazioni che altrimenti avrebbe dovuto farsele da solo o chiederle ad una cameriera. In quest’ultimo caso pagandola. E’ un pensiero semplice e primordiale, probabilmente rozzo ma, lo ripeto, è il mio pensiero. Man mano che Carol mi raccontava o descriveva i suoi diversi tradimenti, in una parte di me si delineava la figura di una donna sporca. Una donna capace di tenere il piede in più staffe e sfruttare, al contempo, tutto il potenziale – sociale ed economico – del suo secondo marito. C’era però un’altra parte di me che ha preferito credere alle giustificazioni apportate. Ero giovane quando l’ho sposato, non sapevo cosa volevo e chi ero… ora ho conosciuto te e so che tu sei l’uomo che posso amare e con cui posso essere me stessa… Lui mi inibiva, mi controllava, mi manipolava, mi impediva di esprimere la mia sensualità, con te è diverso, posso vestirmi come voglio, anzi tu accentui e valorizzi la mia femminilità… io e te siamo coetanei, condividiamo tutto, persino il passato… potrai non credere alle mie parole ma io posso solo dirti che saranno i fatti a dimostrarti chi sono…. Frasi ben articolate e messe insieme che hanno finito per convincermi circa la bontà della donna che le pronunciava. Sono stato un debole e la cosa non riesco a perdonarmela. Ho permesso alla mia parte emotiva di prendere il sopravvento e di oscurare quella razionale. Da un lato ero attratto dalle sue caratteristiche positive, che abilmente mostrava, ma, dall’altro, ero terrorizzato dalla sua capacità di tradire. Non sono un essere perfetto ma so che, non solo non ho mai tradito Carol, ma non ho mai desiderato farlo. Da questo punto di vista le ho sempre dato le più assolute rassicurazioni. L’ho sempre ricoperta di attenzioni e le ho sempre mostrato il mio più totale desiderio verso di lei, solo verso di lei. Ho sempre apprezzato la sua femminilità e, come lei stessa ha più volte affermato, ho sempre valorizzato il suo essere donna. Conscio che tutto ciò non bastava, sono arrivato (addirittura) a proporle un cospicuo assegno da utilizzare per ingaggiare, quando lei ne avesse avuto voglia, un investigatore privato, capace di spiarmi e relazionarle su quella piccola parte della mia vita che non trascorrevo con lei. Ovviamente, pur avendo tale disponibilità economica, non ha mai voluto dar seguito a questa mia proposta. In realtà Carol non aveva la tipica paura del tradimento generata dalla gelosia. Lei temeva il contrario. Paradossalmente temeva che non la tradissi. Aveva un disperato teorema da dimostrare: io ero come lei era stata (o era). Ogni volta che mi lanciava una strampalata accusa di tradimento e quando, con fatti oggettivi, le dimostravo che il tradimento non c’era stato, non si rilassava. I muscoli del suo volto restavano contratti, gli occhi si incattivivano, il corpo si irrigidiva. Il non tradimento era per lei una sconfitta: non era riuscita a dimostrare che io ero come lei. Non era riuscita ad autoassolversi. Il suo senso di inadeguatezza aumentava e, come un serpente, continuava a strisciare sulla sua coscienza, provocandole dolore. Non sono riuscito a capire questo suo gioco perverso, non ne avevo i mezzi. Purtroppo l’ho accettato. Ero convinto che la dimostrazione scientifica della mia fedeltà, prima o poi, la rassicurasse. Non è stato così. In modo bulimico si nutriva di tentativi (vani) di dimostrare i miei tradimenti. Più le dimostravo che il ridicolo scenario, costruito dalla sua fantasia, non stava in piedi, più la fame aumentava. Aveva bisogno di inventarsi un’altra possibile scena del crimine. Carol viveva quello stato di ansia che assale il tabagista quando smette di fumare. Aveva bisogno di una scusa in grado di convincerla che il ricominciare con le sigarette fosse, in fondo, il male minore. Probabilmente (a modo suo) mi amava. Ma il passare repentinamente da una lunga (ed insoddisfacente) storia con un marito molto più grande, con regole di gioco o di sopravvivenza (così le definiva) scritte solo da lei, ad uno più giovane la destabilizzava. Non riusciva a godersi le emozioni e le gioie che la nostra unione sprigionava. Ed erano tante. Si trovava a vivere in un contesto a lei sconosciuto. Per la prima volta, come spesso ripeteva, il suo mondo veniva colorato da amore, passione, impegno ed evasione. Paradossalmente, però, tutto questo non faceva che aumentare il suo senso di inadeguatezza. Non era in grado di governare il vortice di emozioni che stava vivendo e, di conseguenza, si sentiva fragile e insicura. L’unico modo per ritrovare la sicurezza perduta consisteva nel tentare di fomentare un conflitto perenne. E’ cresciuta in un ambiente ad alta conflittualità famigliare. Lo scontro era ed è l’unico modo conosciuto di relazionarsi. La sua vita è caratterizzata, non solo da tre matrimoni falliti, ma anche da episodiche e superficiali amicizie, dissoltesi molto rapidamente. La mia testimone di nozze, dopo la nostra tumultuosa separazione, mi ha fatto notare che al nostro matrimonio, con oltre cento invitati presenti, quasi nessuna persona era legata a Carol. Mancavano i suoi fratelli (con cui, per problemi di eredità, non si parlava da anni), non uno straccio di amica di infanzia né di una cugina. Era praticamente sola. La stessa cosa avvenne per il suo cinquantesimo compleanno. Malgrado vivesse a Roma da anni, non è stata in grado di portare alla sua festa un parente o un’amica. Tutti i presenti erano solo persone legate a me. Il conflitto era il suo unico amico. Un conflitto interiore, tra il suo senso di inadeguatezza e la nuova vita che stava vivendo. Anche il giorno del suo compleanno ripropose tale schema. Organizzammo una bella festa in un locale molto trendy della capitale. Ballammo tutta la sera sulle note degli anni 80. Il locale era riservato a noi e così potemmo scegliere la musica che amavamo. Lei indossava un bel vestito attillato capace di esaltare le sue curve. Era stata al centro dell’attenzione di una miriade di persone che le volevano bene e la coccolavano. Tutta la sera si era divertita. Il taglio della torta poi fu l’apoteosi… ci obbligarono a camuffarci con delle ridicole maschere. Ridevamo tutti, lei per prima. Eppure qualcosa nella parte più intima di lei non andava. Qualcosa stava per esplodere, il suo senso di inadeguatezza stava nuovamente per innescare il detonatore del conflitto. Finì la serata e salutammo tutti i parenti e amici che avevano partecipato alla festa. Sistemammo i regali nel portabagagli e partimmo per tornare a casa. Dopo pochi metri scoppiò in un violento pianto. Più le chiedevo cosa fosse successo più non riusciva a darmi una spiegazione. Il dolore che provava le impediva di comunicare, i singhiozzi soffocavano la sua voce. Dopo qualche minuto riuscì a farmi capire che la sua disperazione (perché di questo si trattava) era da collegarsi al fatto che non aveva ricevuto i regali sperati. Rimasi basito. Cercai di rassicurarla ricordandole che avevamo un buon reddito famigliare e, se qualcosa le era mancato, potevamo andarcela a comprare. Non ottenni nulla, mi rinfacciò di non capirla. Mi chiese addirittura cosa avrei fatto io al posto suo. La risposta fu per me semplice <> le dissi. Ottenni solo di rafforzare il suo dolore. Effettivamente non capivo il suo conflitto interiore. I regali erano solo un pretesto. Non comprendevo che lei non ricercava l’affetto e l’amore delle persone ma solo la scusa per scatenare una guerra contro di me. Arrivò addirittura ad accusarmi, malgrado avessi organizzato (e pagato) l’intera festa, di essere stato un incapace. Secondo lei dovevo coordinare una raccolta fondi tra gli invitati per farle dei doni adeguati. C’era qualcosa di più profondo in Carol che a me sfuggiva. Qualcosa che si annidava dentro di lei fin dalla più tenera età. La vedevo esplodere e ricercare caparbiamente lo scontro più feroce e poi, come se nulla fosse, ritornare la donna amorevole e seduttiva che mi aveva fatto perdere la testa. Era capace di farmi vivere sulle montagne russe emotive. Non decriptavo tutto ciò. Sono stato innamorato di una parte della sua personalità. Forse di una parte recitata con sapienza. Ho creduto, stupidamente, che con il passare del tempo, approfondendo la mia conoscenza, sarebbe stata capace di domare il demone interiore. Mi sono illuso e ho pagato caro il tutto.